Approfondimenti

Angelini - Palaci - Viviamo in un mondo sempre più veloce

Mai come in questo nostro tempo ritrovare la capacità di consapevolezza sembra importante.

Viviamo in un mondo che diviene sempre più veloce, in cui le regole, le situazioni di riferimento, i ritmi, la fasi di adattamento cambiano in modo rapidissimo. E tutto ciò determina una chiara pressione sulla mente e sulla nostra coscienza. In modo più o meno consapevole, percepiamo tutti questa pressione e la necessità ad essa connessa di modificare qualcosa nella qualità della nostra esistenza.

Alla velocità possiamo rispondere, come quasi sempre avviene, facendo ricorso a schemi di comportamento e di pensiero, ad abitudini, a situazioni in cui non è necessario riflettere, dove la risposta è rapida e automatica. Oppure possiamo rispondere con la nostra capacità di presenza, riscoprendo il ruolo che la consapevolezza ha su di noi, sulla nostra struttura psicofisica, sulla nostre azioni.

La differenza fra le due soluzioni sta in un diverso grado di libertà interiore. Quando reagiamo automaticamente, in qualche modo siamo addormentati. Di conseguenza gli eventi hanno un grande potere su di noi e difficilmente siamo soddisfatti della nostra esistenza.

La chiave che consente di scendere dalla “giostra” è un atto di presenza a se stessi: aprire gli occhi, rendersi conto. Uno spazio di consapevolezza che cambia le risposte, che ci accorda una nuova possibilità.

Ovviamente questa condizione va scoperta, sperimentata, esplorata. Occorre farci amicizia. Ma fondamentalmente è semplice, è in tutti noi. E’ solo questa l’essenza della pratica di yoga.

Vimala Thakar - L'attenzione nel quotidiano

Amici, andando al nocciolo della questione – la nostra vita nella quotidianità – mi sembra che un modo innovativo di vivere, dal momento in cui ci svegliamo la mattina a quello in cui ci addormentiamo la sera, sia quello di porre cura in tutto ciò che facciamo: dal lavarci i denti al vestirci, al cucinare il pranzo, al parlare con qualcuno, al modo in cui ci muoviamo.

L’invito che vi rivolgo è quello di essere pienamente attenti a tutto ciò che vi si presenta nel corso della giornata, di ogni giorno, senza fare niente per abitudine. Infatti, l’agire quasi automaticamente si accompagna con la disattenzione e non richiede l’intervento diretto dell’intelligenza.

Anziché comportarsi in modo così passivo, poniamo a noi stessi questa domanda: «Riesco a essere attento, del tutto presente, qualunque cosa io faccia?».

Nessun momento è più importante di un altro; i momenti – tutti – appartengono a quella che viene chiamata ‘eternità condensata’: ciascuno è sacro.

Dunque, «riesco a essere attento a ogni movimento e in ogni rapporto? Riesco a essere interamente presente qualunque cosa io faccia, in modo tale da vivere pienamente?».

Gérard Blitz - La Vita Scorre nell'Istante Presente

Nel cammino verso la non sofferenza tutte le tradizioni dicono che la pace della mente, la stabilità della mente sono indispensabili per percepire la Sorgente che è in noi, la nostra Capacità di Vita.

Il sistema mentale è lo strumento più sottile di cui disponiamo. Esso permette la relazione tra Drashtar , Ciò che in noi percepisce, ed il mondo esteriore. Ma non è lo strumento adatto a cogliere appieno Drashtar, perché la sua natura non lo consente. Ma anche se non possiamo spiegare né pensare questa Fonte, possiamo “riconoscerla” e vivere a partire da essa.

Per mezzo dello Yoga possiamo affrancare il nostro sistema mentale dai suoi schemi e pacificarlo, creando le condizioni affinché si armonizzi col ritmo cosmico, lento e naturale, del corpo. Allora, in modo spontaneo, dopo una giusta pratica, possiamo vivere l’esperienza della pace della mente e accedere così, senza parole, in modo quasi inatteso, a questa pienezza, a questa trasformazione. Questa esperienza depone in noi un seme che crescerà da sé.

La nostra abilità, la nostra arte starà nel permettere a questo seme di germogliare secondo i suoi tempi: troppa pratica potrebbe soffocarlo, troppo poca farlo seccare. Questa esperienza ci trasforma e da accesso alla Vita, facilitando la relazione tra noi e gli altri, relazione che non può essere affidata esclusivamente al nostro intelletto critico e ragionatore. La Vita è la gioia di essere completamente disponibili a tutto ciò che ci circonda. La relazione non può avvenire che grazie alla Sorgente che è in noi, “dalla mia anima alla tua ” dice lo Zen.

La vita è movimento. Tutto evolve senza sosta. Non giustapposizione d’avvenimenti ma flusso, evoluzione che gli avvenimenti accompagnano. E’ la vastità del cielo, non le nuvole che vi transitano. Ogni avvenimento è passeggero: muore ad ogni istante e subito rinasce sotto altra forma. Non è mai l’effetto di una sola ma di più cause. E a sua volta diventa causa: è l’eterno movimento dell’Energia. Qualunque sia il nostro problema, non è in nostro potere di arrestarlo. Non siamo testimoni esterni che giudicano o comparano. Malgrado ciò che il nostro ego ci suggerisce, noi non siamo separati dal flusso della Vita.
Sono le nostre paure, le nostre distorsioni a creare la sofferenza.

Vivere a partire dalla nostra Fonte interiore ci pone in uno stato di continua disponibilità al cambiamento. Quando gli automatismi ed i condizionamenti del sistema mentale ci abbandonano, in quel momento, siamo liberi: viviamo nel presente. Senza sforzo da parte della nostra volontà accettiamo il rinnovamento. L’ego ci lascia. Viviamo pienamente l’avvenimento senza giudicarlo: lo accettiamo.
Inscritti nel presente, siamo la Vita nel momento stesso in cui si svolge, nè prima nè dopo.
Patanjali: “La vita si situa nell’istante presente. Il nostro rapporto col passato (memoria) e con l’avvenire (proiezione mentale) è di altra natura.”

Vimala Thakar - Una condizione di rilassamento totale

… quando, attraverso l’osservazione, la mente stessa diviene consapevole di sé, allora le risulta più facile governare la sua attività, regolando l’ordinario flusso caotico e incontrollato dei pensieri fino a sospenderlo. In definitiva, è il sistema (nervoso) che educa se stesso intervenendo a livello biochimico, fisiologico, psicologico…

È un evento straordinario quando si riesce a sospendere il flusso dei pensieri, quando non transita per la mente alcun pensiero, quando non si accende alcuna emozione e ci si trova in una condizione di riposo e di rilassamento totale, senza divisione o alterazione: uno stato di unità esente da turbamenti, libero da tensioni.

Sapete, essere in tale condizione ‒ priva di contenuti mentali ‒ comporta il sospendersi del tempo, della nozione ordinaria del tempo che si lega all’attività, al fare…

Quando la mente si dispone naturalmente verso questo stato di quiete, allora può immergersi in quella che chiamiamo ʻla vacuità del silenzioʼ.

La vacuità non è però assenza, nullità: essa è pregna di quella energia non condizionata dalla specie umana.

L’uomo si è trastullato con il gioco futile di condizionare l’energia vitale. Ora, invece, è sfidato a esplorare e a vivere in una dimensione non condizionata da se stesso: è invitato a raggiungere la pienezza dell’essere.

M.M.Davy - L'uomo interiore e le sue metamorfosi

Gli uomini vivono sapendo che la morte è al termine della strada e che non vi è alcun cammino che possa fuggire questa conclusione. Perciò il procedere dovrà compiersi nel senso contrario, e dirigersi dalla morte verso la Vita. Una Vita guadagnata durante l’esistenza, risultato di una lunga ricerca e duri combattimenti. Il passaggio per il crogiolo è necessario. E’ qualcosa di comparabile all’operazione condotta dagli alchimisti. Il risveglio dell’oro, che ogni essere cela avvolto in un magma spesso inestricabile, è liberatorio e di conseguenza apre a un’uscita dai diversi condizionamenti che tengono prigionieri il corpi, l’anima, lo spirito.
Di buon grado le tradizioni parlano della nozione di esilio dalla patria celeste. L’esistenza è dunque considerata come una via di ritorno a uno stato originale, il quale implica una costante decreazione. Perciò l’uomo è esiliato da se stesso; è assente da sé, gli è necessario apprendere a ritrovarsi nel fondo più abissale del suo essere. Quando si rivela la conoscenza del cuore, incantato l’uomo abita (sosta) nel riposo. A lungo la sua nostalgia per l’amore e per la luce resta velata, è necessario che egli apprenda a conoscersi, a sapere ascoltare la chiamata, all’interno di se stesso, del grano di senape, di riso di mostarda che vuole germogliare, crescere e che reclama il suo nutrimento come un bambino affamato piange per significare la sua presenza alla mamma che momentaneamente lo scorda.
L’uomo è propenso a credersi ‘vivente’ nella misura in cui ragiona, parla, scrive, dialoga possiede e si proietta all’esterno; ha sete di acquisire, e nell’affermarsi non cessa di paragonarsi agli altri. Talvolta soffre della sua instabilità, più sovente si accomoda al suo interno rifiutando negli altri quel gioco di alternanze che accorda a se stesso.
Un’esistenza di questo genere è larvale e dunque terribilmente limitata. Le mutazioni, fonte di metamorfosi, si mettono in atto quando l’uomo interiore nasce e scopre in se stesso la sua dimensione profonda; le energie trasfiguratrici che tiene nella sua segretezza sgorgano e divengono operanti. Nuovi sensi si formano al pari di organi sottili. Più che di acquisizioni si tratta di ‘spogliamenti’ successivi, sempre più ampi e incisivi. Il termine ‘spogliamento’ ha qui il senso di pulire, dissodare. Implica liberare una struttura iniziale; la quale è più luminosa che opaca, più armoniosa che confusa. Quando l’uomo ritrova la sua unità primordiale, trova equilibrio nel suo corpo, nella sua anima e nel suo spirito. E’ finalmente affrancato dai morsi degli avvenimenti esterni che lo rendevano prima d’ora comparabile a un relitto trascinato e costantemente sballottato dalle onde. Da qui la spossatezza del suo corpo e del suo spirito, i dubbi, le angosce, le malattie.

Angelini -Palaci - Strane queste giornate

Strane queste giornate segnate da una solitudine imposta.

Solitudine che può tradursi in passività, in tempo subito, ma anche in un’opportunità, in un’occasione per guardare meglio in noi stessi, i nostri percorsi interiori.

Le circostanze particolari che stiamo vivendo ci hanno confinati in una sorta di sospensione che presenta non poche similitudini con lo spazio che si determina quando pratichiamo, un intervallo che ci consente di sottrarci al consueto.

Così come nella nostra pratica siamo invitati a scoprire che i gesti possono organizzarsi lungo tracciati diversi da quelli a noi noti, anche in questo spazio imposto, illimitato e confinato allo stesso tempo, possiamo scoprire che in grande misura le azioni che ci sono abituali possono trovare una sospensione.

In entrambi i casi, le nostre premesse sono inoperanti. Abbiamo l’opportunità di sperimentare noi stessi al di là dei modelli ai quali ci riferiamo normalmente. Una delle cose più difficili per noi è prendere le distanze dal proprio “pensato”. Esiste quello che pensiamo, ma esiste anche quello “che non siamo in grado di pensare”: noi stessi in un modo diverso.

L’idea che abbiamo di noi stessi è il paradigma di riferimento, l’immagine che plasma il nostro corpo, la nostra postura, il modo in cui organizziamo i nostri gesti e anche, oltre a questo, l’interazione con gli altri. La scoperta che la pratica ci regala avviene quando ci sorprendiamo essere diversi, come se postura e gestualità appartenessero a qualcun altro. Com’è possibile questo? Cosa si è interrotto in noi? E se qualcosa si è interrotto, cos’altro è rimasto attivo?

La finezza, la difficoltà della pratica suggerita da Patanjali sta nell’offrire la possibilità di nuovi scenari, nel modo in cui interpretare le nostre percezioni. È un “fuori quadro” della nostra coscienza, che non possiamo anticipare o prefigurare: non ne sappiamo nulla fino a quando non vi siamo immersi.

E ora, a causa di un invisibile virus, su tutto il territorio nazionale ci è imposto di arrestare tutto, di “rimanere in casa”! Di sospendere tutte, o quasi, le attività, le azioni che definivano la nostra quotidianità, il nostro modo di essere. In particolare, rinunciare a quel ritmo incalzante di atti e di pensieri, di parole e reazioni che in quest’epoca ci definisce, ci identifica. E se questo non è certo facile, può tuttavia rivelarsi interessante.

Sentirsi vivi in altri modi, prendere le distanze dal “pensiero” a cui attingiamo, interrogare il nostro essere vivi “al di fuori” dei soliti schemi.

Questo “al di fuori” sembra essere una condizione propizia per riconoscere che esiste un altrove della coscienza.

Quando Patanjali all’inizio degli Yoga Sutra afferma:

Yoga chittavritti nirodah (I-2) [Essere uno – un altrove della coscienza –diventa possibile quando l’attività reattiva della mente si sospende], sembra invitare a farsi da parte, a liberare uno spazio per una parte di noi impensata.

Questo è un punto di partenza interessante per una riflessione sulla nostra pratica, una rivisitazione delle ragioni che stanno alla base del nostro yoga.

Renata e Moiz

Angelini -Palaci - Cambiare ottica non è facile

… Cambiare ottica non è facile, né immediato.

Richiede tempo e motivazione…

Nello stato di osservazione si percepisce,

ma non si fa nulla.

Non si è attivi, ma nemmeno inattivi.

Non è sopore, ma non è neppure reazione. (Vimala Thakar)

 

Non abbiamo modo di sapere in anticipo a cosa corrisponda in realtà il cambiamento indicato negli Yogasutra. Potremo documentarci fino a divenire degli eruditi sull’argomento, seguire vari seminari di approfondimento, ma finiremo per scoprire che il nostro cervello organizza i dati in base a esperienze consolidate. È come cercare di conoscere il sapore di un frutto sconosciuto attraverso le parole di amici che ce lo descrivono: solo assaggiandolo noi stessi sapremo davvero di che sapore si tratta. E sarà sicuramente diverso da ogni idea che ce ne saremo fatti.

Che cosa dunque apprendiamo? Che esiste una differenza fra conoscenza e comprensione. E che la mente privilegia la prima. La conoscenza è legata alle parole, quindi ai significati collettivi e personali che alle parole sono associati.

La vera difficoltà nella pratica è prendere le distanze dal proprio pensato, sospendere le idee sedimentate in noi circa il nostro corpo e il modo in cui esso può esprimersi. Scoprire che una forma che assumiamo non si riduce solo al modo in cui i gesti si organizzano per realizzarla. Ma risente anche dell’idea che noi abbiamo a monte di tale forma. Solo quando sperimentiamo che, non sapendo, funzionalità ed elasticità dei nostri muscoli operano in modo diverso da quanto siamo abituati ad aspettarci, si apre di fronte a noi un campo di esplorazione imprevisto.

Ovviamente durante la pratica sappiamo quello che stiamo facendo, a quali forme diamo vita, per esempio il cobra, eppure allo stesso tempo accettiamo di non sapere come l’azione dei muscoli debba dispiegarsi a tale scopo.

Sviluppiamo con pazienza uno sguardo che non sa. Guarda ma non sa, come naturalmente facciamo quando giochiamo o quando cerchiamo di capire dove stia il guasto in qualche meccanismo. In questi frangenti sperimentiamo un silenzio spontaneo che però, quasi sempre, passa inosservato. Non viene visto.

Non viene visto perché siamo portati a prestare attenzione a forme e risultati. Dare preminenza a forme e risultati plasma il nostro pensiero e impregna il sistema nervoso. Di conseguenza siamo portati a riferirci a un soggetto che fa, a riconoscere un legame diretto fra desiderio-volontà e movimento-forma. E ciò spinge alla performance nell’azione: come sono bravo se assumo una certa postura, se ottengo un determinato effetto. Si assiste a una “teatralizzazione” delle azioni, i gesti divengono appariscenti, non spontanei, anche quando recitiamo solo per noi stessi.

Un’alternativa sta nello spostare lo sguardo allo stato delle cose, al modo in cui le cose si trasformano in noi e attorno a noi. Si comprende allora che il cambiamento ha la natura di una trasformazione silenziosa e graduale, come il germogliare di un seme.

La grande scoperta che facciamo, a determinate condizioni di ascolto e di pratica, è che la nostra condotta e l’organizzazione dei nostri gesti si dispiega da sé, la comprensione si diffonde senza un progetto intenzionale, per auto-dispiegamento e senza incontrare attrito.

Il cambiamento lo sentiamo avvenire nel rilassamento, nel modo in cui prendiamo contatto con il corpo, senza la pretesa di agire. Basta riconoscere lo stato delle cose.

Lo sentiamo nel modo in cui i nostri muscoli generano il movimento, pur nel rispetto dei limiti che ci caratterizzano. E nel modo in cui i piedi dialogano con il pavimento e trasmettono le forze di questo contatto a tutto il corpo.

Lo sentiamo nel modo in cui la nostra postura verticale accoglie la risalita del radicamento, nella particolare sensazione di plasticità che dalla nostra struttura emana.

Quante volte abbiamo ripercorso i movimenti e siamo rimasti nelle posture prima di notare un cambiamento nel nostro modo d’essere, nel nostro approccio? Sentirci liberi dall’impazienza ma anche dall’inerzia, né volontarismo né passività.

Quando si è arrivati a una simile comprensione? C’è stato un momento preciso o le informazioni si sono depositate in noi in modo delicato, silenzioso, fino a divenire percepibili ed evidenti?

Infine cominciamo a disporre di un sapore che consente di accedere al senso della metafora usata da Patanjali nel quarto capitolo degli Yogasutra (IV,3), quando dice che un nuovo piano di coscienza si determina similmente al gesto di un contadino che abbatte l’argine di un canale per permettere all’acqua di scorrere nel campo; così il dissolversi degli ostacoli è all’origine dei cambiamenti in noi.

Renata e Moiz